Era una stanza strana. Lo diceva lei per prima. Ma del resto tutta la casa era strana, ma solo così la sentiva sua. L'aveva detto pochi giorni prima a suo figlio.
"Se non posso avere una casa bella, voglio almeno avere una casa strana" e guardandosi intorno poteva dire tranquillamente di esserci riuscita.
La stanza a cui si riferiva prima era la cucina. Nata come una tranquilla cucina all'americana, una di quelle che si usavano quarant'anni fa, fredda e anonima, dagli oggi, dagli domani, aveva finalmente perso tutta la sua geometrica compostezza per diventare una frivola raccolta di suppellettili di ogni genere. Ma niente era stato lasciato al caso e ogni oggetto aveva la sua storia e un motivo per essere lì. E così sulla lunga fila di pensili si rincorrevano vasi di ceramica e brocche che avevano versato acqua o che erano state in un'altra vita sopra una stufa di terracotta, per rilasciare umidità. E c'erano due grandi piatti, uno dei quali proveniente dal Marocco, ricordava una gita fatta da suo figlio tanti anni prima, l'altra dono di una amica di sua figlia, della migliore amica, e fiaschi di vino impagliati, di quelli toscani veraci. Sul tavolo immediatamente sotto, una macchinetta per l'espresso e tante tazzine scompagnate, ciascuna con il suo vissuto e poi un grande vassoio di legno, scolorito, vecchio e pieno di acciacchi, ma ancora funzionante. E scatole di latta e di legno e thermos, di quelli americani di scintillante rosso. Il forno a microonde e vicino il grande orologio a pendolo, che invece di essere attaccato al muro era stato appoggiato su una base, come un comune elettrodomestico. Non si era offeso l'elegante orologio dentro il suo pregiato mobiletto di mogano e aveva continuato allegramente a battere le ore. E poi cesti di paglia di tutti i colori e un grande quadro a olio con un paesaggio surreale e vicino un altro quadretto con un piccolo gufo, che aveva dipinto sua figlia in uno dei rari momenti di relax. Sull'altra parete, la scrivania di quando era ragazza, Traballava un pò, la scrivania di tek, peraltro uguale identica ai mobili di cucina, ma sopra c'era il barattolo dei pennelli e quello delle spatole che la rendevano bella e interessante e non importava se poco più in là erano appesi ramaioli, mattarelli, forchettoni e taglieri, perché quando lei si sedeva a quella scrivania, il mondo spariva e spariva il tempo e magicamente si ritrovava l'adolescente di allora, di tanto tempo fa, che scriveva il suo diario e faceva finta di studiare.Quasi nascosta, la piccola seggiolina di legno, pieghevole e sopra appoggiata con garbo una borsa di paglia di Firenze con ricami floreali, raccolta su un cumolo di macerie nella vecchia scuola dei suoi figli. Più in là su altre basi era appoggiato un mobiletto colorato con tanti cassettini e una piccola serra di vetro e di legno che invece di accogliere fiori, ospitava sacchetti di farina e il lievito madre. E sul mobiletto, l'ultimo arrivato, nato a natale, un bonsai, accudito come un bambino, che aveva trovato lì la sua nursery e provava a crescere. E un pò più in là, attaccato alla base della piattaia un burattino, Pinocchio, che l'aveva seguita in tutte le vicissitudini della vita...con le sue frasi, e il suo lessico. "O babbo!" C'è forse una parola altrettanto affettuosa per rivolgersi al padre? "Ho conosciuto un'intera famiglia di Pinocchi......" con tutto quel che segue! E poi il frigorifero con le foto attaccate e l'immagine di Bali, l'amico cane della sua vita, mescolate con quelle dei nipotini e dei figli. Poche fotografie, perché lei non amava scorgere il tempo che passava su quei volti. In un angolo, la timida cucina a gas, comprata tanti anni prima dal suo figliolo con uno dei suoi primi stipendi. Piccola, essenziale e coriacea. Doveva trovare il tempo di appenderle una medaglia, per ripagarla del servizio che aveva reso e che continuava a rendere. Le veniva da ridere, mentre il suo sguardo si posava dapprima distratto e poi sempre più partecipe su quel piccolo mondo, perché più che una cucina sembrava un emporio pieno di oggetti, ma quanta vita in quelle cose, quanti ricordi, quanta dolcezza in tutto quello che la circondava. Ed ora era lì, a sorseggiare un caffé, mentre il suo sguardo correva su tutte le cose e si perdeva fino all'ingresso che sembrava essere il proseguimento naturale della cucina diventato improvvisamente una galleria d'arte per tutti i quadri che vi erano attaccati. Solo che erano tutti quadri suoi, momenti della sua vita, episodi non solo dipinti, ma catalogati in un angolo della mente e del cuore. Pensava anche alla poltrona a dondolo, che un giorno era dovuta tornare repentinamente in casa insieme a un armadio e a un cassettone, che dovevano essere portati via dal magazzino in cui erano stati sistemati per tanti anni. L'alternativa era quella di doversene disfare. Ma lei non l'avrebbe mai fatto e alla fine aveva trovato un posto anche per questi amici silenziosi che avevano accompagnato la sua vita e i suoi traslochi. E la poltrona a dondolo era andata a finire in bagno, e con sorpresa si era accorta che ci stava anche bene. Ed ora era giunto il momento di andare a letto, glielo ricordava con i suoi don don, l'orologio che aveva battuto dodici rintoccho, l'ora di spengere la luce sugli oggetti confortanti della sua esistenza. Chissà! Forse anche loro avrebbero dormito, o forse , come nelle favole, si sarebbero animati e avrebbero improvvisato una festa. Chissà!
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