martedì 25 agosto 2020

Lampi di felicità: i 100 metri piani

Stasera alla  televisione è andata in onda una miniserie sulla vita di Pietro Mennea. In effetti l'avevo già vista qualche anno fa, ma mi ha fatto piacere guardarla nuovamente, perché mi è sempre piaciuta la corsa, avendola anch'io praticata quando ero ragazzina, cioè un bel pò di anni fa.
Ma non mi sarei mai aspettata che l'ultima parte di questo film avrebbe avuto un impatto così potente su di me.
Siamo alla finale dei 200 metri piani e ogni attimo di quella corsa è entrato dentro di me a tal punto che a un certo momento, mentre guardavo le gambe di Mennea che correvano con tutti i muscoli tesi nello sforzo della gara, mi sono accorta che non erano più le sue le scarpe che vedevo, scarpe azzurre, ma le mie, color cuoio e rosse, che mi aveva comprato il mio babbo a Firenze, sapendo che mi dovevo preparare per i cento metri piani delle mie gare studentesche. Avevo già vinto le eliminatorie e anche la staffetta. Ora mancavano i 100 metri, che per me era la gara più importante. Le scarpette erano arrivate inattese e graditissime, un vero paio di scarpe da corsa.................
Ma non volevo divagare, anche perché la sensazione che ho provato stasera ha bisogno di essere fissata subito, altrimenti se ne va, diventa evanescente e prima che ciò succeda voglio scriverla, e scrivendola, viverla nuovamente.
Ero rimasta alle sovrapposizione delle mie scarpe con quelle di Mennea, delle mie gambe con quelle di Mennea, del mio corpo con quello di Mennea, ma cosa molto molto più importante, della mia mente con quella di Mennea, perché io sapevo cosa stava provando lui in quei momenti, anche se lui è un campione e io sono nessuno e dico che è e non era un campione, perché i campioni non muoiono mai.
Chi era Pietro Mennea: carriera, curiosità, vita privata e morte ...E nessuno mi venga a dire che si corre per partecipare, perché non è vero. Si corre per vincere, e nel momento stesso in cui si appoggiano i piedi sui blocchi di partenza, sappiamo che comincia l'agone, la lotta, che spinge a dare tutto di se stesso, per riuscire a tagliare per  primo il filo del traguardo. 
Ed è così che è stato tutto un crescendo e mentre lui correva, io correvo e faticavo e soffrivo perché ero lì per vincere e sentivo i miei capelli al vento e il sudore che scendeva lungo la schiena,  e l'impressione di volare fuori dal tempo e dalla mia dimensione. Ed è così che quando lui ha vinto, anch'io ho vinto e mi sono ritrovata ad alzare le braccia allargate in alto e a gettare indietro la testa e a tirare fuori il grido liberatorio della vittoria.
E per un attimo, un meraviglioso attimo sono tornata ad avere diciotto anni.
Subito dopo mi sono ritrovata sbalordita di me stessa, e mi sono girata indietro sulla seggiola, sperando che nessuno mi avesse visto fare quei gesti e quel grido. Mi è andata bene, ma anche ora, mentre scrivo, incurante se lo faccio bene o male, sento dentro di me una grande felicità, anche perché mi sembra che chi scrive non sia la signora dai capelli bianchi che sono diventata nel frattempo e dopo tanta vita, ma la ragazza di allora che vinse i 100 metri piani in un fantastico pomeriggio di giugno.
Ciao ragazza, è stato bellissimo poter essere nuovamente te, anche se solo per brevi attimi.

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